Il documentario-denuncia scopre una realtà tenuta
volutamente nascosta
dai Governi e da una gran
fetta di stampa assoggettata a poteri di vario
tipo.
"Ad intraprendere il viaggio, costato
250 dollari e
durato 14 giorni, eravamo 110 in un camion, stipati
peggio
delle galline, si soffocava per la elevata
temperatura ed umidità
emanata dai nostri corpi,
alcuni morivano e venivano scaricati lungo il
percorso, altri, i più resistenti, svenivano.
Gli autisti abusavano delle donne e
nessuno poteva
fiatare o ribellarsi, pena l'uccisione o
l'abbandono in
mezzo al deserto."
Parole che tagliano più di un coltello quelle
pronunciate da un ragazzo
dalla pelle scura e dagli
occhi così grandi che occupano un quarto dello
schermo e nei quali si legge una sofferenza che non
potrà mai più in
alcun modo essere lenita.
"Si parte pensando che non ci sia niente
di peggio
di quello che si subisce nel paese
natale, ma ci si
sbaglia quando si inizia il viaggio e
quando, ancor
peggio, si arriva in Libia".
Yimar, studente di giurisprudenza ha
lasciato il suo
Paese per cercare una prospettiva di vita diversa e si
è
trovato davanti ad un muro di gomma, di fronte al
quale nessuno si
assume le proprie responsabilità e
tutti fanno finta di non vedere ciò
che realmente
succede intorno a loro.
"In Libia ci si può fermare solo 6
giorni, il tempo
necessario per recuperare i soldi che servono ad
attraversare il Mediterraneo -
racconta Yimar - e se i
soldi da parenti o amici tardano ad
arrivare non ci si
può nemmeno fermare a dormire un giorno
in più da
qualche persona consigliata perché i
vicini di casa
denunciano alla polizia libica la
presenza di
estranei".
Qui comincia la vera odissea per gli
emigranti.
"Mi hanno arrestato a Bengasi e senza nemmeno
chiedermi il nome mi
hanno portato in carcere - dice
un ragazzo eritreano - lì ho
subito di tutto, botte,
sporcizia, privazioni di cibo e di acqua (ne era
concessa un litro a testa ogni 24 ore e con questa
dovevamo bere e
lavarci).
Ci hanno strappato la croce dal collo
e l'hanno
gettata a terra deridendo la nostra religione e poi ci
hanno
caricato su altri container piccoli o grandi
sempre strapieni (mezzi
messi a disposizione dal
governo italiano) per viaggi infiniti in cerca
di posti
disponibili in altre prigioni.
Ad Al Khufra le donne venivano isolate e
stuprate."
"È normale, ci passerete tutte di qua,
ci dicevano le
guardie - racconta una giovane donna
mentre mostra
dei lividi alle braccia - ci tenevano
legate per giorni e
la sporcizia infettava le nostre piaghe".
L'accordo siglato tra Italia e Libia prevede un giro di
5 miliardi di
dollari per 20 anni, aiuti per contrastare
l'immigrazione clandestina in
cambio di maggiori
forniture di petrolio.
Esseri umani utilizzati come merce di
scambio.
Ad Al Khufra vengono condotti i deportati
per essere
poi venduti alla Polizia libica per 30 denari.
"Mi hanno preso 7 volte, - testimonia
una giovane
somala - mi hanno incarcerata e venduta,
rincarcerata e rivenduta per 7 volte".
Un gioco strano che si ripete tra
poliziotti e
trafficanti di immigrati e che non si riesce a capire.
"Ad Al Khufra ci sono 700 persone in una unica
prigione - denuncia uno scampato -
ci dicono di non
pensare a quando si potrà uscire, ci
ripetono:
mangia, bevi e dormi, il resto per te non
conta".
Quando Dagnawil Yimer è arrivato in Italia ha
frequentato un corso di
video partecipato all'interno
del "Progetto della memoria migrante",
questo
documentario è il suo primo lavoro.
"Volevo poter dimenticare, invece devo
raccontare, è
un dovere al quale non mi posso sottrarre
- ha
spiegato Yimer alla fine della proiezione.
"Una volta ho assistito ad una scena
che mi ha fatto
odiare la specie felina:
ho visto una gatta che mangiava
i suoi cuccioli più
deboli e salvava quelli più forti.
Questo stanno facendo da parecchi anni
l'Italia e la
Libia.
Quello che riesce a passare è il più
forte, gli altri
rimangono in Libia e soccombono."
"Questo film è diventato il ponte tra le associazioni
ed il pubblico,
non c'è altro modo di conoscere la
verità - ha aggiunto Riccardo
Noury, Direttore
dell'Ufficio Comunicazione di Amnesty
International
Italia - ma quello che manca è il ponte fra le
istituzioni.
Grazie agli accordi passati e recenti
oggi l'Italia
respinge gli emigranti che vengono riportati in quelle
prigioni.
Per 10 anni i governi di diverso
colore hanno
negoziato forniture di mezzi navali e terrestri,
forniture
di sacchi per impacchettare i cadaveri in
cambio di gas per far
funzionare i nostri
condizionatori.
La Libia è diventata un partner
strategico per l'Italia -
ha concluso Noury - e noi ci siamo
dimenticati degli
aspetti umani delle persone costrette a
tutto ciò che
stanno subendo".
"Spero che il mio documentario venga proiettato in
Etiopia per far
capire a tutti quelli che hanno
intenzione di andarsene che cosa
dovranno
affrontare durante il viaggio e quello che gli aspetta
in
Libia, con la complicità dell'Europa e dell'Italia in
primis - ha
detto Dagnawil Yimer alla chiusura al
dibattito:
faccio questo per avere la mia dignità di
uomo".
Secondo le Autorità libiche tra il 2006 e il 2007 sono
transitati nel
paese 95.370 immigrati.
Nessuno di loro voleva uscire dal proprio
Paese,
lasciare tutto ciò che si era costruito in una vita,
fossero
anche solo gli affetti.
Ed invece si sono messi in viaggio senza
conoscere
in anticipo quello a cui andavano incontro.
Molti sono morti, altri sono ancora
imprigionati in
carceri dove ai diritti umani è vietato l'ingresso e
alcuni, pochi, ce l'hanno fatta, ma solo a metà,
perché sempre stranieri
si sentiranno in una Paese
che non vuole vedere.
Morti, vittime ed emarginati comunque sono tutti
figli di una gatta
troppo ingorda e crudele che
sceglie chi risparmiare e chi divorare.
Un imbarazzo e una vergogna di cui dobbiamo
seriamente farci carico.
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